Amare il lavoro fa male?

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Chi svolge un compito gratificante è un privilegiato? 

Oppure è solo un egoista?

Chiara Merlini

Di recente ho letto un testo che mi ha abbastanza scosso. Perché ha toccato ciò che per anni è stato il fondamento del mio lavoro. Miya Tokumitsu (dottorato in ricerca in storia dell’arte alla University of Pennsylvania), in un articolo apparso sul magazine americano Jacobin con il titolo In name of love (e riportato da Internazionale) stravolge la prospettiva in cui molti di noi – me compresa – ha inteso e intende il lavoro.

‘Fa’ quello che ami. Ama quello che fai’ sono sentenze che regolano la vita di molti di noi. E, mi è sembra, a ragione. O mi sembrava. Adesso mi pare di trovarvi delle pieghe oscure che mi piacerebbe tanto vedere spianarsi e chiarirsi.

Secondo Tokumitsu, ‘fa’ quello che ami’ sembra diventato il claim dei nostri tempi, parlando di lavoro. Il problema è che non porta alla salvezza, ma alla svalutazione di quello stesso lavoro che dice di elevare, e, soprattutto, alla disumanizzazione della gran parte dei lavoratori.

Una tesi sconcertante. Ma supportata da un netto ragionamento: incoraggiandoci a restare concentrati sui noi stessi e sulla nostra felicità individuale, questo ci distrae dalle condizioni di lavoro degli altri e, insieme, conferma le nostre scelte, sollevandoci da qualsiasi responsabilità nei confronti di tutti quelli che lavorano anche senza amare quello che fanno. Secondo questa scuola di pensiero, il lavoro non è qualcosa che si fa per un compenso, ma un atto d’amore verso se stessi.

Il profeta giù dal piedistallo

In causa viene chiamato Steve Jobs, carismatico – e defunto – ad di Apple.

Jobs ha coltivato la sua immagine di lavoratore ispirato, libero, appassionato: stati d’animo caratteristici dell’amore romantico perfetto. Ma rappresentando la Apple come un frutto del suo amore individuale Jobs ha cancellato il lavoro di migliaia di anonimi che lavorano negli stabilimenti dell’azienda, al riparo da occhi indiscreti, dall’altra parte del pianeta: gli stessi che hanno permesso a Jobs di tradurre in pratica il suo amore,

La violenza di questa cancellazione va denunciata. ‘Fa’ quello che ami’ è una frase che può suonare innocua e delicata, ma in ultima analisi è egocentrica al limite del narcisismo.

Una conseguenza di questo isolamento è la divisione tra i lavoratori, in senso classista. Il lavoro viene diviso in due categorie (creativo, intellettuale, socialmente prestigioso) e quello che non lo è(ripetitivo, non intellettuale, generico). Chi fa lavori piacevoli è privilegiato in termini di ricchezza, status sociale, istruzione, pregiudizi razziali e peso politico, anche se costituisce una piccola minoranza della forza lavoro complessiva.

Per chi è costretto a fare un lavoro che non ama è tutta un’altra storia. I lavori che si fanno per motivi e bisogni diversi dall’amore (cioè la maggior parte) non sono solo sminuiti, ma cancellati, dal credo di Jobs.

Per Miya Tokumitsu, quindi, ‘fa’ quello che ami’ potrebbe essere un’elegante ideologia in circolazione contro i lavoratori. Perché i lavoratori dovrebbero associarsi e difendere i loro interessi di classe se una cosa chiamata lavoro neppure esiste? Inoltre, ‘fa’ quello che ami’ nasconde il fatto che poter scegliere un mestiere principalmente come forma di gratificazione personale è un privilegio immeritato, il segno di un’appartenenza di classe.

Se si pensa che lavorare come imprenditori nella Silicon valley, addetti stampa di un museo o ricercatori di un istituto sia essenziale per essere persone autentiche – in pratica, per amare noi stessi – cosa pensiamo delle vite interiori e delle speranze di quelli che puliscono le stanze d’albergo o riforniscono gli scaffali di un grande magazzino? La risposta è: niente.

Eppure, sono proprio i lavori più faticosi e sottopagati quelli che un numero sempre maggiore di americani fa e continuerà a fare. Secondi l’ufficio statistiche del Ministero del lavoro degli Usa, i due mestieri più richiesti da qui al 2020 saranno l’assistente sanitario e il collaboratore domestico, con salari medi rispettivamente di 19.640 e 20.560 dollari l’anno.

E non è tutto…

Insomma, pare che chi fa un lavoro emotivamente gratificante non lo riconosca come lavoro, e in questo modo rafforzi lo sfruttamento anche nell’ambito delle cosiddette professioni piacevoli, in cui gli straordinari e il lavoro sottopagato o gratuito sono la nuova norma: giornalisti a cui si chiede di fare anche il lavoro dei fotografi che sono stati licenziati, passare il fine settimana su Twitter, controllare le e mail di lavoro nei giorni di malattia. Niente facilita lo sfruttamento come convincere i lavoratori che stanno facendo una cosa che amano. Non è una coincidenza che le industrie che fanno più affidamento su stagisti e tirocinanti – moda, informazioni, arti – sono anche quelle in cui la presenza femminile è più numerosa. Le donne costituiscono la maggioranza della forza lavoro sottopagata o non retribuita.

E la conclusione è che: ”’fa’ quello che ami’ è il più perfetto strumento ideologica del capitalismo. Distoglie l’attenzione dal lavoro degli altri, mascherando il nostro da qualcos’altro. Nasconde il fatto che se considerassimo lavoro quello che facciamo, potremmo stabilire dei limiti appropriati ed esigere un compenso equo e orari umani compatibili con la famiglia e lo svago. Se lo facessimo, aumenterebbe il numero delle persone in grado di fare il lavoro che amano”.

Considerazioni

Nell’articolo non si parla però dell’etica dei datori di lavoro: ce ne saranno pure di quelli per cui ancora valgono le regole del rispetto, della meritocrazia e del riconoscimento del valore dei rapporti umani!

Inoltre, in questo momento in cui il lavoro precario è una piaga sociale, chi veramente può ritenersi superiore agli altri?

Un altro punto: mi sembra che, oggi, il valore di una persona nella società venga brutalmente ‘monetizzato’: è apprezzato chi ‘fa soldi’ (importa molto meno in che modo).

È vero che è maggiore la gratificazione personale di chi fa un lavoro che gli piace: ma siamo sicuri che questo compensi le attese personali o non sia invece un fattore di crisi, notando che il proprio lavoro non viene valutato? E la ‘valuta’ è anche monetaria…

Ci sono molte verità e molti spunti di riflessione nell’articolo: credo che l’intelligenza, la sensibilità personale di chi è descritto come parte ‘dell’élite che lavora gratis’ non gli consenta di sentirsi separata dal resto del mondo lavorativo. A fine mese, tutti, ci guardiamo nelle tasche. E il ragionamento di permettersi di lavorare gratis (io direi più facilmente sottopagato) può sussistere solo per chi – giovane o meno – vive in una famiglia che sopperisce ai suoi bisogni primari, oppure ha deciso forzatamente di ridurre le sue esigenze con la scelta di un lavoro piuttosto di un altro. Ma non credo che ci si possa sentire parte di un’élite, in cima all’Olimpo dei diseredati… Mi farebbero piacere i vostri commenti…

(Cleaning Community Magazine, n. 1 – 2014)  



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