Usare i social network ormai per tutti è diventata un’abitudine. Non solo quotidiana, ma – per alcuni – è un appuntamento per trovarsi in rete più volte al giorno. Questo significa che commenti, critiche e apprezzamenti si sommano, per delineare il ‘profilo’ di chi scrive quasi a sua insaputa. E che persona ne viene fuori?
Si è soffermato a pensarci – come nota Farad Manjoo, in un articolo sul New York Times – Anil Dash, imprenditore (e blogger), quando ha riguardato le parole che aveva usato di più, in un mese, su Twitter, parlando con amici e colleghi. E le considerazioni derivate sono state un po’ inquietanti: risultava, infatti, un’immagine più aggressiva di quanto si sentisse, non era più così convinto dei suoi tweet.
La riflessione sui comportamenti on line è da tempo una materia di studio, per Dash, che con Gina Trapani ha fondato ThinkUp, un servizio che, analizzando il comportamento degli utenti sui social, porta chi interagisce a una maggiore riflessione. In pratica, a migliorare un comportamento.
Perché le aziende – e i singoli – dovrebbero iscriversi a un servizio a pagamento, quando, tutto sommato, si può pensare che con un po’ di attenzione in più, un po’ di autocontrollo, il problema potrebbe essere risolto?
Perché è facile perdere la consapevolezza di ciò che si scrive, perché twittare (e il tweet è significativo perché obbliga a una particolare stringatezza) e lanciare messaggi su facebook su gli altri social è un’attività veloce, che non si presta a ripensamenti.
E sembra che, con la velocità, il messaggio stesso goda di una vita effimera. Mentre invece ciò che atterra sul web, sul web rimane. La rete non butta via niente (nulla si distrugge!), ogni commento va ad aggiungersi a quello precedente e così, a cascata.
La considerazione che twittare sia un’azione strettamente personale, che al di fuori di pagine aziendali il comportamento in rete sia ininfluente sul fronte lavoro, è una pia illusione.
Chi ha un ruolo in un’azienda difficilmente può contare su una privacy per quanto afferma on line: l’immagine ‘privata’ rimane strettamente legata a quella ‘pubblica’, sempre più gli attori di ogni mercato vanno a ‘frugare’ nella comunicazione di chi avvicinano anche per lavoro. Per capire cosa realmente pensano, come si pongono, cosa fanno al di fuori degli schemi ufficiali.
E questo vale anche per i colloqui di lavoro. In un sondaggio per conto di ‘Career Builder’ – riferisce Manjoo – quasi metà delle aziende ha ammesso di guardare le pagine on line dei candidati.
Finora, l’iniziativa di Dash e Trapani non ha avuto un grande successo: la difficoltà è fare capire alle aziende perché il servizio offerto da ThinkUp (costo: 5 dollari al mese per ogni social a cui si collega) è utile.
Questo potrà risultare più chiaro quando sarà aumentata la percezione degli errori commessi in rete, quando sarà diffusa l’idea che la ‘netiquette’ non è superata, che esiste una professionalità – ovviamente, per chi è più attento – da mantenere, pur nella libertà di espressione.
Confrontarsi con gli altri, con mezzi che sembrano molto liberi ma che all’empatia lasciano uno spazio molto ristretto (sarà per quello che si vede un abuso di smile, faccine corrucciate, fiori, dolci eccetera) sembra facile e istintivo, ma non lo è poi tanto. Anche i nuovi e veloci mezzi di comunicazione pare abbiano ancora bisogno di alcune ‘istruzioni per l’uso’…
Chiara Merlini