Imprese di servizi e trattamento del verde

Schermata 2017-03-20 alle 11.38.52

Per le imprese che si occupano di fornire servizi ad ampio raggio, il trattamento del verde e le tematiche inerenti rappresentano un capitolo da non trascurare. Le erbe infestanti, ad esempio, costituiscono un danno alle colture ma anche a parchi e giardini, al verde pubblico. A questo proposito, un prodotto ‘storico’ come il glifosato in questi ultimi anni è nel mirino, da quando, nel 2015, l’International Agency for Research on Cancer   lo ha ritenuto (insieme ai fitofarmaci che lo contengono) “probabile cancerogena per l’uomo”. Ma l’argomento è lontano dall’essere concluso, e anche la normativa non aiuta a fare chiarezza.

Una storia infinita

Marzo 2015 – IARC (International Agency for Research on Cancer): un comitato di esperti di 11 paesi ha analizzato la documentazione su 5 insetticidi ed erbicidi organofosforici per valutarne la cancerogenicità e ha classificato il glifosato e i fitofarmaci che lo contengono come “probabile cancerogena per l’uomo”, inserendola nella categoria 2A. In questa categoria sono comprese le sostanze con cancerogenicità limitata per l’uomo, ma sufficiente nei test clinici su animali (nella stessa categoria sono compresi, per esempio, sia il DDT, gli steroidi anabolizzanti, le emissioni per la combustione di legna da ardere… ). La IARC ha esaminato studi sui lavoratori agricoli esposti al glifosato in USA, Canada e Svezia, che mostrano un “aumentato rischio di linfoma non-Hodgkin” mentre altri studi hanno dimostrato danni al Dna e ai cromosomi nei mammiferi.

Novembre 2015 – EFSA, Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, ha stabilito che “è improbabile che il glifosato costituisca un pericolo di cancerogenicità per l’uomo” e ne ha proposto “nuovi livelli di sicurezza che renderanno più severo il controllo dei residui di glifosato negli alimenti“. Una valutazione che è quindi in contrasto con quella della IARC. Ma fino a un certo punto, perché sollevano il problema dei residui ….

Maggio 2016 – Una riunione di esperti dell’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, e della FAO sui residui di pesticidi (JMPR) è giunta alla conclusione che “è improbabile che il glifosato comporti un rischio cancerogeno per gli uomini come conseguenza dell’esposizione attraverso la dieta“.

Alla fine di giugno 2016, la Commissione Europea ha deciso di prorogare di altri 18 mesi l’autorizzazione all’uso del glifosato, anche se nello stesso tempo ha chiesto agli stati membri di limitarne l’uso nei luoghi pubblici. La decisione è arrivata dopo mesi di riunioni inconcludenti, in cui i 28 paesi dell’Unione europea non sono riusciti a prendere una decisione chiara.

N.B.: la rinuncia al glifosato non è più solo un problema economico per la multinazionale che lo ha lanciato (Monsanto, ora acquisita da Bayer) ma un problema per chi, rinunciando a tale prodotto, vedrebbe i costi della lotta alle malerbe crescere notevolmente e un possibile decremento delle rese produttive delle coltivazioni più estese.

In Italia, il 7 ottobre 2016 è entrato in vigore il Decreto del Ministero della salute del 6 settembre, che revoca l’autorizzazione all’immissione in commercio di prodotti fitosanitari che contengono glifosato con il coformulante Ammina di sego (n. CAS 61791- 26-2) dal 22 novembre 2016 e del loro impiego a partire dal 22 febbraio 2017.

Cos’è il glifosato

Il glifosato (o glifosate) è un composto organofosforico, un fosfonato. È analogo alla glicina, amminoacido naturale e come tutti gli amminoacidi esiste in differenti stati ionici che dipendono dal pH. Il glifosato è solubile in acqua a 12 grammi per litro, a temperatura ambiente. Il suo nome è una contrazione dei composti utilizzati in questa sintesi (glicina e fosfonato). La sua azione si esplica interferendo con la sintesi degli amminoacidi aromatici fenilalanina, tirosina e triptofano, e dalle piante viene assorbito soprattutto dalle foglie, poco dalle radici.

È un erbicida totale, che risulta efficace per distruggere qualsiasi tipo di infestante ed è utilizzato in particolare per quelle che invadono le colture. Sintetizzato per la prima volta nel 1950, è stato commercializzato dalla Monsanto come diserbante per l’agricoltura negli anni 70, quando l’azienda statunitense lo ha brevettato e messo sul mercato come RoundUp. Le principali produttricidi glifosato sono le statunitensi Monsanto, DowAgro e DuPont, l’australiana Nufarm, la svizzera Syngenta e le cinesi Zhejiang Xinan Chemical Industrial Group, Jiangsu Good Harvest-Weien Agrochemical e Nantong Jiangshan Agrochemical & Chemicals.

Il glifosato ha avuto molto successo perché è risultato poco tossico per l’uomo (rispetto agli erbicidi in uso all’epoca della sua introduzione), perché penetra poco nel suolo (solo fino a 20 cm), si degrada facilmente perché viene distrutto dai batteri presenti nel suolo e quindi ha poca probabilità di raggiungere le falde acquifere.

Se prima veniva utilizzato solo prima della semina, con la coltivazione di piante geneticamente modificate resistenti al glifosato, può essere usato anche dopo la semina, perché queste non risentono più del danno creato dal diserbante a differenza delle malerbe (che comunque sono in grado di differenziare ceppi via via più tolleranti al glifosato).

Nel nostro paese è vietata la coltivazione di piante Ogm, ma il glifosato è molto usato sia sulle colture arboree ed erbacee, sia in aree non destinate all’agricoltura. Quanto al suo monitoraggio nelle acque, per ora è effettuato solo in Lombardia, dove risulta presente nel 31,8% dei punti di osservazione delle acque superficiali, e il suo metabolita (Ampa) nel 56,6%. Glifosato e Ampa sono tra le sostanze che determinano in misura maggiore il superamento degli standard di qualità ambientale (Sqa) nelle acque superficiali: l’Ampa in 155 punti (56,% del totale), il glifosato in 85 punti (31% del totale).

Secondo le stime della US Geological Survey, attualmente il glifosato è utilizzato in 750 prodotti per l’agricoltura, e il suo consumo dai 67 milioni di kg del 1995 (l’anno precedente alla coltivazione dei campi Ogm) è arrivato a i 826 milioni di kg del 2014.

Le strade alternative: acido acetico e acido pelargonico

Messo in quarantena il glifosato, per trovare un diserbante efficace utilizzabile nelle aree non agricole, le ricerche si sono orientate in varie direzioni. I sostituti che riscuotono maggiore interesse sono i bioerbicidi derivati dagli acidi organici e i due più utilizzati sono l’acido acetico e l’acido pelargonico.

L’acido acetico

è un acido carbossilico molto presente in natura, prodotto finale della fermentazione dell’etanolo. In Italia, è stato oggetto di numerose sperimentazioni: presso il CeSpeVi (Centro Sperimentale per il Vivaismo di Pistoia), nell’ambito del progetto ViS vivaismo sostenibile, è stata condotta una ricerca utilizzando due diversi dosaggi di acido acetico (0,1 ml/mq e 0,3 ml/mq) nei confronti di 25 specie di infestanti. L’acido acetico agisce per contatto, ha dimostrato un’azione erbicida immediata, ma non ha evitato fenomeni di resilienza (ripresa vegetativa in seguito a un danno). Al dosaggio più elevato, però, solo tre specie, perenni, hanno ripreso a vegetare: Cynodon dactylon, Sonchus oleraceus e Taraxacum officinalis. I ricercatori hanno poi messo in guardia l’elevata perdita di efficacia in caso di diluizioni: i buoni risultati sono correlati alla sua acidità (pH circa 2) che permette il danneggiamento delle membrane cellulari.

L’acido pelargonico

Il Ministero della salute, con DM 26 febbraio 2016, ha autorizzato fino al 31 agosto 2019  l’immissione in commercio e l’impiego  di un diserbante a base di Acido pelargonico (nome commerciale Beloukha), una sostanza di origine naturale,  distribuito in Italia grazie a un accordo tra i Consorzi Agrari d’Italia che sono la rete di rivendita e Novamont,  distributore ufficiale. Si tratta di un diserbante totale ad assorbimento fogliare non selettivo, che agisce solo per contatto, con un effetto visibile entro 2-3 ore dall’applicazione, distruggendo le cuticola fogliare e la parete cellulare delle piante ed è autorizzato sulla vite e sulla patata. Novamont e CAI stanno valutando di richiedere per il prossimo anno di estendere l’autorizzazione anche su altre colture.

Il prodotto è indicato come soluzione integrativa di altri interventi – come quelli meccanici – nei programmi di gestione degli infestanti basati su un ridotto impiego dei tradizionali erbicidi.

L’acido pelargonico agisce distruggendo la cuticola esterna, rendendo così permeabili le cellule, e quindi portando a una rapida disidratazione dei tessuti e al loro disseccamento. Non ha azione sistemica e, quindi, non distrugge le radici.

L’acido pelargonico è presente in natura e viene ottenuto da un olio vegetale che non contiene coadiuvanti di sintesi. Si tratta di un acido grasso, monocarbossilico alifatico saturo a 9 atomi di carbonio; ufficialmente il suo nome è ‘acido nonanoico’ ma è chiamato ‘pelargonico’ per essere stato isolato per la prima volta dalle foglie del Pelargonium roseum, un tipo di geranio.

La sua azione erbicida si esplica a contatto con le foglie delle piante infestanti, l’acido è attivo nei confronti di un ampio spettro di infestanti annuali e poliennali, mono e dicotiledoni, alghe e muschi ed è particolarmente attivo nei confronti di piante giovani. Non ha azione residuale, non inquina il suolo ed è quindi adatto a essere utilizzato in aree che sono frequentate dalle persone e dagli animali domestici.

Il problema? Fondamentalmente un maggior costo dei servizi di diserbo delle sedi stradali, cimiteri, massicciate ferroviarie … maggior costo difficilmente sostenibile dalle Amministrazioni Pubbliche.

 

Fonti:

Ambiente territorio – Coldiretti

Internazionale

Pan-uk

Wikipedia en

 

 

 



Il tuo nome (richiesto)

La tua email (richiesto)

Il tuo messaggio